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Denzel Curry – Melt My Eyez See Your Future

2022 - Loma Vista Recordings / Virgin
hip hop

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Tracklist

1. Melt Session #1
2. Walkin
3. Worst Comes To Worst
4. John Wayne (feat. Buzzy Lee)
5. The Last
6. Mental (feat. Saul Williams & Bridget Perez)
7. Troubles (feat. T-Pain)
8. Ain’t No Way (feat. 6LACK, Rico Nasty, JID, & Josiah)
9. X-Wing
10. Angelz
11. The Smell of Death
12. Sanjuro (feat. 454)
13. Zatoichi (feat. slowthai)
14. The Ills


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Parlando di “TA13OO un mio collega – ben più eminente di me in materia rappistica – sosteneva che, a differenza di tanti suoi colleghi in ambito trap, Denzel Curry il rap lo sapesse fare “evitando di ridurre il tutto a quattro parole ripetute ossessivamente”. Quell’album e “ZUU” davano la misura di quanto oltre il ragazzo (prodigio) di Carol City, Florida, avesse ben altre frecce al suo arco. Noi fissati dei chitarroni non abbiamo ignorato la sua devastante cover di Bulls On Parade, notando che, al momento, Curry è l’unico che sia riuscito a rappare come De La Rocha, con lo stesso tiro e la medesima ferocia (impresa in cui due veterani del calibro di Chuck D e B-Real hanno miseramente fallito), e se non è una prova questa lo sarà di sicuro “Melt My Eyez See Your Future”.

Arrivato al suo quinto album Denzel ha 27 anni e abbraccia la maturità, in primis quella umana, fronteggia come mai prima d’ora i demoni del suo passato e quelli che il mondo ha consegnato a tutti quanti, nessuno escluso, e lo fa imbottendo questo lavoro di disillusione e ferocia, idee e una qualità lirica da fuoriclasse. Si guarda allo specchio e poi volge lo sguardo alla finestra e in nessuno dei due casi gli piace ciò che vede e riversa tutto nel suo rhymin’ ossessivo, si invola in riferimenti culturali propri delle generazioni a lui limitrofe, recuperando sia TLC che De La Soul, ed è quest’ultima a dargli ragione, ché tutto sembra fare, tranne che godersi il sole della Florida, buttandosi di testa in un grigiore e una cattiveria introspettiva proprie di quelle crew che infestavano le sporche strade newyorkesi quando il pupo Curry non era nemmeno in fasce. “This is not rap, my nigga, this is bebop”, tirando in ballo Freddie Hubbard, avendo solo che ragione.

Curry rovescia ciò che è stato, la trap sotto i cui drill si sentivano sepolte influenze tra le più disparate che ora prendono il sopravvento piegando il genere in cui ha mosso i suoi primi quattro passi a semplice richiamo, una parte del tutto, ritornando incastrato in saette di storia musicale afroamericana. La dichiarazione d’intenti è chiara sin dall’apertura del Rhodes di Robert Glasper, rampa di lancio di Melt Session #1, un intimo e impietoso flusso di coscienza in accelerazione bestiale pronto al decollo, scontrandosi con le nuvole soulful di Walkin tra batterie storte, così old school da far impallidire i vecchi – permettetemi di esagerare. Non è un esercizio di stile, bensì una necessità, quella di mettere in chiaro le proprie origini interpolando ciò che è stato sul cammino, così nascono brani come The Last con tanto di autotune usato come Dio comanda su un ritornello stordente in cui si raccontano gli Stati Uniti del lockdown duro, le paranoie, l’odio che ribolle e non riesce più ad essere contenuto, Troubles e la cannonata Ain’t No Way (con una Rico Nasty al fulmicotone), crossover tra coste e stili.

Richiami all pop-culture sono interplay che vaglia quel dualismo amaro di cui sopra: John Wayne (le armi da fuoco come coperte di Linus), X-Wing (destreggiarsi in un mondo di auto da ricconi desiderando uno dei caccia dei ribelli di Star Wars), The Smell Of Death (che fronteggia la rabbia “come Naruto nella modalità eremitica), Sanjuro (richiamare Kurosawa per tributare il compianto MF DOOM) e l’atomica Zatoichi (Curry gioca a fare l’affiliato al clan Wu-Tang mentre slowthai balla in mezzo ai The Prodigy), un frullatore di generi piazzato alla massima velocità che non si ferma nemmeno a spina staccata con negli occhi i richiami a quell’Estremo Oriente figli di Gibson a far da compendio a qualcosa di più grande.

Non posso smettere di pensare – forse un po’ puerilmente lo ammetto – a come dalle nostre parti stampa e pubblico siano distratti dal nuovo disco di un rapper della vecchia guardia che tenta di recuperarsi (senza disdegnare strizzatone d’occhio al mondo dorato in cui vive da un pezzo), quando in circolazione c’è roba come “Melt My Eyez…”. Non che poi conti granché. Ci sono cose fatte per restare e altre per essere dimenticate. Speriamo che in questo ci sia una giusta selezione naturale.

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