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Orville Peck – Bronco

2022 - Columbia
alt-country / songwriting

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Tracklist

1. Daytona Sand
2. The Curse Of The Blackened Eye
3. Outta Time
4. Lafayette
5. C'mon Baby, Cry
6. Iris Rose
7. Kalahari Down
8. Bronco
9. Trample Out The Days
10. Blush
11. Hexie Mountains
12. Let Me Drown
13. Any Turn
14. City Of Gold
15. All I Can Say
 


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A tre anni di distanza dall’ottimo “Pony”, è tornato Orville Peck, il misterioso artista sudafricano di stanza in Canada che sta provando a ridefinire le regole e l’immagine stessa del country. Continuiamo a non conoscere tutto di lui: non il suo volto, ostinatamente celato da una maschera sfrangiata, stavolta dorata come il suo vestito da cowboy, ben poco della sua storia.

Molto più chiaro è il suo manifesto artistico-politico: associare un’estetica nuova, e tradizionalmente distante, a un genere poco abituato alle sperimentazioni e, possibilmente, svecchiarlo. Se in “Pony” questo avveniva mediante il ricorso a un filtro dreamy, persino shoegaze in alcuni passaggi, e attraverso il disegno di ambientazioni cinematografiche, in Bronco” la scelta è ricaduta, paradossalmente, su un’interpretazione più purista e classica del genere, ma sempre con un sottile manto pop e una certa attenzione per le melodie.

La cavalcata negli scenari polverosi e desertici comincia a ritmi bassi, con tiepide accelerazioni su un ritornello già memorabile: Daytona Sand è l’apertura ideale, con tanto di “M-I-S-S-I-S-S-I-P-P-I” finale a rievocare un certo tipo di immaginario, su percussioni rigorosamente marziali. A ribadire il fatto che, al di là delle scelte meramente musicali, la voce sia uno degli elementi più riconoscibili e, di conseguenza, anche uno dei maggiori punti di forza del nostro (anti-)cowboy, c’è un passaggio più essenziale, ma non meno forte: The Curse of Blackened Eye. Quest’ultimo precede due dei brani dal refrain più catchy in assoluto: Outta Time, che, in qualche modo, riesce a essere perfettamente contemporaneo pur essendo idealmente collocabile anche negli anni Ottanta, e C’mon Baby, Cry, con un falsetto delizioso cullato da strutture fondamentalmente pop, ma immerse nella solita atmosfera assolata e a tinte ocra.

Due (belle) prove cantautoriali, Iris Rose e Kalahari Down, sono stipate a metà percorso, con la seconda perfettamente adattabile ai momenti più epici di un western a vostra scelta, anticipando una titletrack che, invece, si mostra più robusta e rappresenta uno dei due casi (entrambi riusciti) di flirt con il southern rock, al pari della galoppante Any Turn.  È il principale sintomo di un talento compositivo raro, che permette a Orville Peck di introdurre sistematicamente piccole e indovinate intuizioni in grado di rendere i brani sempre imprevedibili e mai troppo simili tra loro, anche nelle vesti più pop: Hexie Mountains, per esempio, è sorretta da un banjo e da un sottotesto stratificato ed elegante, oltre che dalla solita irresistibile interpretazione vocale, mentre Let Me Drown è impreziosita da un arrangiamento orchestrale e magniloquente.

Bronco” si spegne con un ultimo instant classic: All I Can Say, in cui Orville Peck duetta con Bria Salmena in quello che è il pezzo più cinematografico del lotto, ma la tracklist è completata da altri quattro brani perfettamente a fuoco: il country-pop di Lafayette e Blush, due brani con un approccio più cantautoriale, come Trample out the Days e City of Gold. Orville Peck continua a scardinare le regole del genere con un disco che accoglie tracce di bluegrass, doo-wop e di psichedelia, rimanendo in perfetto equilibrio su binari country, pur con visibili sfumature pop. “Bronco” scalderà facilmente i cuori dei fedelissimi del genere, mentre potrebbe aver bisogno di più tempo chiunque non sia particolarmente avvezzo a queste sonorità, pur avendo amato “Pony”.

Alla fine, però, la sensazione è che entrambe le categorie possano convergere verso una conclusione unica: “Bronco”, esattamente come il suo predecessore, è un disco di grande spessore in termini di tecnica e composizione, ma forse può addirittura superarlo in termini di fruibilità e, allora, Orville Peck appare destinato a diventare una delle figure più autorevoli di questa fase storica per l’intera scena.

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