Impatto Sonoro
Menu

Recensioni

Goat – Oh Death

2022 - Rocket Recordings
psych world music

Ascolta

Acquista

Tracklist

1. Soon You Die
2. Chukua Pesa
3. Under No Nation
4. Do The Dance
5. Apegoat
6. Goatmilk
7. Blow The Horns
8. Remind Yourself
9. Blessings
10. Passes Like Clouds


Web

Sito Ufficiale
Facebook

A sei anni dalla loro ultima fatica discografica (“Requiem”) e a poco più di un anno dalla pubblicazione di una raccolta di b-side, inediti e singoli vari ed eventuali che non hanno mai trovato spazio negli album fin qui pubblicati (“Headsoup”), tornano finalmente i Goat, la misteriosa band che dice di arrivare da Korpilombolo, una località nella remota contea svedese di Norbotten, la più settentrionale e la meno popolosa del Paese.

Se parliamo (ancora) in questi termini è perché gli anni di attesa hanno aggiunto poco all’elenco di cose che conosciamo sulla biografia dei componenti di questa inafferrabile realtà, il cui fascino discende esclusivamente da uno spirito, un’estetica, una ricerca e un sound unici o quasi sin dagli inizi, che risalgono al 2012. Non l’anonimato autoindotto, dunque, né la proverbiale imperscrutabilità del collettivo celato dietro costumi e maschere folkloristiche sono le ragioni per le quali il nome si è imposto come piccola band di culto per il genere, per altro nemmeno facilmente riassumibile con le più comuni e immediate locuzioni.

Il quarto lavoro in studio della tribù scandinava, “Oh Death”, non fa eccezione in tal senso e continua a rincorrere un ideale forte di commistione, che accoglie elementi da qualsiasi latitudine e li bagna con la solita (o quasi) cascata di psichedelia. Se “Requiem” appariva più imperniato intorno agli elementi etnici rispetto al passato, “Oh Death” sembra cercare un equilibrio nuovo intorno a un sound più denso di groove in senso stretto, in alcuni momenti restituendo importanza e centralità a una strumentazione più classica. Questo appare chiaro già da Soon You Die, che va in tutt’altra direzione rispetto a Djôrôlen / Union Of Sun And Moon, su cui si schiudeva “Requiem”, e finisce dalle parti dei Funkadelic, con un fuzz teso e lisergico, integrato nel contesto di un sound che si fa parecchio più robusto.

E non è l’unico caso in cui si riconosce un peso maggiore concesso alle chitarre: questo accade anche in altri episodi, come Under No Nation, che flirta con l’afrobeat e scorre su un ritmo ipnotico, retto e scandito dalle percussioni, almeno fino all’ingresso di fraseggi acidissimi che anticipano il deflagrare di linee heavy-psych. L’anima dei Goat, però, rimane intatta e inscalfibile: a raccontarlo c’è un senso di organicità a tratti anche superiore rispetto al passato, per il quale il flusso sonoro sembra essere più unico e compatto, più che la somma di una quantità enorme di elementi. Blow the Horns, per esempio, è deliziosa espressione di un gusto afrobeat luminoso e colorato, riflesso in un sound pieno e incantatore, esattamente come Goatmilk è il tripudio di un funk festaiolo, impreziosito dai flauti andini e dal sax. In entrambi i casi, le chitarre si prendono la scena nel finale, senza prevaricare, accompagnando il brano verso la conclusione.

Ma i Goat riescono a restituire, com’è ormai noto, quelle stesse sensazioni in modi anche molto diversi fra loro: il dark folk acido e scurissimo di Chukua Pesa si condensa in meno di due minuti e mezzo e insiste su un groove ripetitivo e ammaliante, mentre Passes Like Clouds, brano che chiude “Oh Death”, è una sorta di desert blues vagamente onirico, sospeso in un suono rarefatto che non perde il suo afflato psych. La scelta di insistere su pattern magnetici è abbastanza ricorrente nel quarto lavoro in studio dei Goat e forse raggiunge il risultato migliore in Do the Dance, il cui ritmo è a metà fra il danzereccio e il marziale: le percussioni dominano, il basso sorregge, le chitarre sferzano, definendo il brano che probabilmente più di tutti è destinato a stamparsi nella mente di chi ascolta. A completare l’opera sono due brevi intermezzi, Apegoat e Blessings, oltre a Remind Yourself, che ricama l’Eddie Hazel più acido su ritmi globali quasi da clubbing.

Non è chiaro se e per quanto la parabola del collettivo di Korpilombolo continuerà. C’era chi aveva letto una dichiarazione d’intenti già nel titolo del disco numero tre e fa quasi sorridere che il sequel, oggi, si chiami “Oh Death”. A prescindere da questo, va sottolineato come i Goat si proponessero, più o meno esplicitamente, di ridefinire alcuni concetti della world music, di attualizzarla, di renderla, se possibile, “del mondo” nell’accezione più pura del termine, centrifugando storie, culture, tradizioni, colori, profumi, ritmi e strumentazioni appartenenti a mondi distanti e apparentemente inconciliabili fra loro. Con quattro dischi pubblicati nell’arco di un decennio, la missione può dirsi ampiamente compiuta e forse addirittura superata, perché, mentre tracciavano un segno riconoscibile nella storia della world music, i Goat hanno saputo aggiungere qualcosa anche all’estetica della psichedelia.

Visto da entrambe le prospettive, quello del collettivo è da considerarsi a pieno titolo uno dei percorsi artistici più ispirati e brillanti di questa fase storica. All’interno di questo solco si inserisce pienamente “Oh Death”: a prescindere, infatti, dal suo posizionamento nella produzione discografica della band, la certezza è che questo lavoro rappresenta l’ennesima grande conferma per un collettivo che è destinato a lasciare una scia luminosa per la storia di questo sound, anche quando la corsa sarà finita. Sperando che ciò accada il più tardi possibile.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Altre Recensioni