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“Holy Wood”, la lenta marcia nell’oscura valle della morte

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Ricordi lontani, giovani adolescenti, liceo, testi scritti sui diari, mass media e legioni di persone incazzate e pronte a dar battaglia ad uno dei personaggi più rappresentativi dell’ultima metà degli anni ’90: mr. Brian Warner, meglio noto al pubblico come Marilyn Manson. A due anni dall’uscita del capolavoro Mechanical Animals (1998), il Reverendo entra a gamba tesa sull’alba del nuovo millennio con “Holy Wood (In The Shadow Of The Valley Of Death)” (2000).

Da bravo fan, fin dai tempi del periodo con gli Spooky Kids, primordi poco considerati della carriera del cantante, aspettavo l’uscita di questo nuovo disco, e anche ora posso dire che non ha certo deluso le mie aspettative. Con un artwork provocatorio, che vede la stilizzazione del busto del frontman crocifisso e senza la mandibola, Manson non lascia nulla al caso e denuncia, tra grida, rock e ballad ispiratissime, il suo disprezzo verso il genere umano e un mondo corrotto, ipocrita e contaminato dal dio denaro, dalle armi e naturalmente dalla religione, tema a lui assai caro. Tra le tracce più irriverenti e spinte troneggiano sicuramente The Fight Song e Disposable Teens. Tanto per sollevare un po’ più l’opinione pubblica, il Dott. Warner pensò bene di far incazzare ancora di più media e benpensanti con un feto crocefisso come artwork proprio del singolo Disposable Teens. Anche la furbizia è un arte del resto.

Scaltrezza a parte, il lavoro della band dell’Antichrist Superstar è veramente ammirabile, non a caso parliamo degli stessi animali meccanici dell’album del ’98: Madonna Wayne Gacy alle tastiere disegna ambienti mistici e oscuri in modo considerevole, la ritmica sulle quattro corde è affidata all’inamovibile Twiggy Ramirez, mentre alla batteria troviamo Ginger Fish e alla chitarra il monumentale John 5. Domanda che mi sono sempre posto è perché il Reverendo abbia sempre sfruttato poco le incredibili qualità tecniche del chitarrista platinato. Inoltre, Rob Zombie avrà ringraziato sentitamente Manson per via del fatto che sia Fish che John 5 dopo l’album “The Golden Age Of Grotesque” (2003), siano saltati sulla sua nave, abbandonando l’Anticristo al suo non roseo futuro artistico. 

Brani come A Place In The Dirt, Target Audience (Narcissus Narcosis) e Coma Black riescono ad alternare bene il sacro e il profano, l’acustico e l’elettrico, il rock e la ballad, in uno stile più pensato e studiato, distante dai classici The Beautiful People o Get Your Gun. Già in “Mechanical Animals” (1998), Manson aveva dato prova delle sue qualità di songwriter anche in frangenti melodici meno distorti e iracondi, pensiamo ad esempio a The Last Day On Hearth o Disassociative. In Love Song, Cruci-Fiction In Space o Valentine’s Day troviamo un robusto rock, con marcati tratti doom, che rende più scura e densa la linea melodica della band.

Di grande effetto la cantilenante The Nobodies, pezzo in cui Warner sfoga tutta la sua rabbia misantropica, accompagnato anche da un lavoro di fino delle tastiere di Gacy. The Death Song mantiene un classico stile mansoniano con tutti i tasselli al posto giusto: lavoro ritmico eccellente, così come le linee di tastiera e, naturalmente, l’imponente chitarra di John che spara accordi distorti in modo tagliente e preciso. L’apprezzabile tranquillità di Lamb of God ci fa un po’ prendere fiato, in effetti è utile perché Born Again e Burning Flag sono veri momenti di rock duro, che ci riporta alle malsane e diaboliche atmosfere dei tempi passati.

Uno dei brani più belli dell’album, non è la classica sparata di rock mefistofelico, ma la ballad In The Shadow Of The Valley Of Dead : la voce di Manson echeggia accompagnata da una chitarra acustica e da una melanconica tastiera in lontananza, solo nella parte finale Fish da il suo personale contributo ritmico al brano che va così a sfumare. Anche The Fall Of Adam parte sulle stesse corde melodiche, ma poi a metà si trasforma in una specie di comizio su base doom, dove il Reverendo sembra urlare dal pulpito, chiamando a sé tutte le black masses del reame.

Sul finale, King Kill 33 sembra scandire il ritmo di un’oscura marcia sulla quale la voce cavernosa del frontman luciferino alterna sussurri spettrali a grida distorte. Il commiato di Manson è curioso, volutamente inquietante e naturalmente provocatorio: in Count to Six and Die (The Vacuum of Infinite Space Encompassing), il nostro amico cantilena una canzone malinconica con un orologio a pendolo che sembra scandire il tempo rimastogli. In sottofondo, una pistola viene caricata, si sente il tamburo girare e il grilletto che scatta per ben cinque volte a vuoto, per poi caricarsi una sesta e lasciare il sesto colpo al silenzio.

Chiaramente in questo personaggio c’è tanto di costruito, poiché da che mondo è mondo, ciò che è scioccante ha sempre venduto alla grande e, chiaramente, Mr. Warner ha saputo cavalcare benissimo l’onda dell’osceno, della blasfemia e del macabro. Ma togliendo tutto il carrozzone del look e delle provocazioni, la musica di Marilyn Manson, pur nella sua semplicità tecnica, riesce a rappresentare una tipologia di rock interessante, godibile e molto ben eseguito. Vedendolo dal vivo nel 2017, ho potuto valutare di persona che, anche se non più nel fiore dei suoi anni di follia, e soprattutto dopo qualche album piuttosto discutibile alle spalle, il buon Reverendo ha ancora qualche colpo da sparare. Con l’uscita di The Pale Emperor (2015) e di Heaven Upside Down (2017), ha dato prova di esserci ancora, anche se in modo diverso. Ascoltare oggi “Holy Wood (In The Shadow Of The Valley Of Death)“, e ancora di più gli album precedenti, ci mette davanti ad una musica diversa da quella di oggi: follia demoniaca, rabbia, violenza, droga, sesso tutto dentro a quel rock selvaggiamente oscuro.

Quindi, vera o falsa che sia, la lunga ed impervia strada fuori dall’inferno che il Reverendo Manson ha fatto fino ad ora, ci ha regalato belle soddisfazioni e, anche se con qualche scivolone,  risentirlo è sempre un piacere.

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