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Ozzy Osbourne – Ordinary Man

2020 - Epic Records
heavy metal / hard rock

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Tracklist

1. Straight to Hell
2. All My Life
3. Goodbye
4. Ordinary Man
5. Under the Graveyard
6. Eat Me
7. Today Is the End
8. Scary Little Green Men
9. Holy for Tonight
10. It's a Raid
11. Take What You Want


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Cinquant’anni fa John Michael Osbourne cantava I’m an Iron Man nello storico “Paranoid” (1970). Vi sareste aspettati che il Madman, alla veneranda età di 71 anni, fosse ancora l’icona più rappresentativa del genere heavy metal?

Nonostante l’ultimo anno sia stato uno dei più difficili della sua vita, visti i suoi continui problemi di salute, tra cadute, problemi respiratori e, infine, la diagnosi di Parkinson, il suo spirito è forte e la sua voglia di cantare e stare su un palco sembra non avere mai fine. Con il No More Tour alle porte, sperando che l’emergenza COVID-19 ci faccia respirare e ritornare alla normalità, Ozzy si prepara a lanciare dal vivo la sua ultima fatica, la dodicesima, che esce a distanza di dieci anni dall’ultimo “Scream” (2010): “Ordinary Man“.

Certo, Mr. Osbourne non è stato, non è, e non sarà mai più una persona comune per la storia; tuttavia il concept di questo album sembra mirare proprio agli aspetti personali e profondi di questo artista unico. Con ben sette tracce in slow/mid time, su undici, vediamo Ozzy togliersi la maschera del Madman, una maschera che per tanto tempo noi metalheads gli abbiamo chiesto di indossare e che lui, consapevole o no, volente o no, ha sempre portato senza esitazioni. Senza dubbio “Ordinary Man” è l’album più personale ed introspettivo che il cantante di Birmingham abbia dato alla luce e il titolo riflette ciò che, questa volta, vuole mostrare di sé: non la follia, lo sballo, l’oscurità o l’esoterismo, ma solamente John Michael Osbourne e la sua vita, con tutte le sue difficoltà, gioie, dolori, rimpianti. Il ritratto di un uomo di settant’anni che si siede tra le sue centinaia di migliaia di fan e racconta loro la vera straordinaria storia di un uomo.

A dargli una mano in quest’ultima impresa ci sono dei nomi di eccellenza. A cominciare da Andrew Watt, chitarrista e produttore del disco, che ha coinvolto anche il batterista Chad Smith, Red Hot Chili Peppers, e Duff McKagan, ex Guns N’ Roses e Velvet Revolver. Questa la formazione base dei compari di Ozzy, ma le sorprese non finiscono qui.

Essendo, il più delle volte, portato ad un’analisi track by track, mi scuserete per la forma prolissa, ma stavolta non posso proprio esimermi dal descrivere passo passo questo grande ritorno. Straight to Hell si presenta come traccia potente e cazzuta con tutti i sacri crismi propri del Principe dell’Oscurità, che si affida agli assoli del cilindrato Slash per dare maggior smalto al suo sound. Cala l’intensità ritmica con All My Life, e qui cominciamo a leggere la vena autobiografica dell’uomo Ozzy: melodia in mid time, che non brilla in originalità, ma sia gli aspetti vocali che chitarristici mantengono alto il livello musicale. Un litanico intro stile Sabbath ci porta all’interno di Goodbye, che a metà vede Chad e Duff cambiare passo e dare una vena più aggressiva ad un brano che, di certo, non delude affatto.

Con la title track tocchiamo livelli altissimi di pathos ed emozione: una ballad, che scivola sulle note del pianoforte di Sir Elton John. Il connubio di questi due artisti e grandi amici diventa veramente idilliaco nel brano che non ti aspetti, e che sciolina tutto il concept dell’album mettendo a nudo l’anima e l’umanità di John Michael OsbourneUnder the Graveyard una ballad ricca di espedienti metal che rendono la traccia facilmente orecchiabile, anche se non troppo pretenziosa, né orignale. Il testo, anche in questo caso, affonda le radici nell’autoanalisi di una vita e nel racconto delle paure e di un sentimento crepuscolare che pervade un frontman che, per la storia, non morirà mai.

Sulle note di un’armonica, fa il suo ingresso l’altra chicca, oltre al title track: Eat Me, dove su reminescenze sabbathiane Ozzy fa quadrato con la band in particolare con McKagan e soprattutto con le imponenti sei corde di Mr. Watt per una traccia potente ed originale. L’idillio però si interrompe sulle note di un’anonima Today is the End, dove non si capisce bene di cosa si stia parlando, se di una ballad o di un pezzo hard rock. Tuttavia, con Scary Little Green Man ritroviamo subito dell’Ozzy che conosciamo, accompagnato stavolta dalla chitarra del grande Tom Morello, che intraprende tonalità musicali per lui insolite, sempre garantendo un brano carico di grinta e precisione tecnica.  

Purtroppo un paio di brani anonimi li troviamo e, dopo Today is th End, anche Holy for Tonight suscita molto poco, anzi risulta piuttosto piatta e povera di idee. Meglio It’s a Raid, che, nella sua parte iniziale e finale, sfocia in un punk molesto, quasi una ripulitura in grande stile di un brano dei Sum 41; insomma non esattamente il sound che uno si aspetta, anche se orecchiabile. Il finale del disco, non certo eccelso, si conclude con la nota più stonata, probabilmente inserita per calamitare un po’ di new generation: Take What you Want con la partecipazione del trapper Travis Scott, è veramente una traccia priva di senso nell’album di un artista di tale calibro. Consideriamola solo un’abominevole operazione di marketing, che con il Madman non ha niente a che vedere.

Ozzy è una leggenda e le leggende non moriranno mai, nonostante le voci sulla sua salute facciano pensare ad un finale di carriera prossimo, noi auguriamo altri cento album di grande successo e di grande musica all’uomo che più di tutti ha significato tanto per il movimento e la musica metal. La sua maschera da Principe dell’Oscurità sembra sempre più pesante da portare sul palco e forse con questo disco Ozzy vuole condividere un po’di quel peso con i suoi fan, sentendosi più vicino a loro, sentendosi più umano e meno eterna rockstar.

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