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BIG IN JAPAN 2021: all’alba guarda ad est – i migliori dischi dell’anno provenienti dal Giappone

Ci ho preso gusto, o meglio, è un vizio che ho da sempre, e dunque rieccoci qua, nel 2021, a guardare oltre il nostro naso occidentale verso lidi giapponesi che pullulano di realtà che altrimenti resterebbero criminalmente nascoste. Benvenuti nel secondo appuntamento con Big In Japan (e nel caso vi foste persi il primo nessun problema, il bello dell’internet è che potete cliccare qui e trovare quello che state cercando).

Dire che ormai siamo assuefatti alla cultura giapponese potrebbe sembrare un’esagerazione, ma nemmeno così tanto. La mia generazione e quella precedente sono cresciute con le reti televisive private che spingevano questo nuovo mondo, quello degli anime, o semplicemente, all’epoca, cartoni animati giapponesi (che volendo è pure un pezzone degli Elii). Un mondo colorato, assurdo, totalmente opposto a quello che ci veniva descritto sulle pagine dei Bonelli, di Topolino o di Marvel e DC. Un mondo che credevamo libero e che invece nella violenza e all’intensità dei propri racconti nascondeva un percorso doloroso e non privo di complicazioni.

A partire dal Secondo Dopoguerra, il momento della rinascita, in cui un mondo formalmente isolazionista comincia la corsa, prima rincorsa e poi slancio verso il futuro, un momento in cui la presenza statunitense comincia a spingere il collettivismo sindacalista per poi pentirsene, per poi andarsene, lasciando il Paese del Sol Levante far da sé, per crescere esponenzialmente. Un Paese segnato da lotte sociali e un passato che tendeva a non passare mai, il Paese che prendeva esempio dagli altri per poi codificare il tutto in linguaggio proprio, unico ed inimitabile.

Così è accaduto per l’Arte, tutte le Arti, il cinema, tra Yasujirō Ozu (Wim Wenders ne seguì le tracce nel suo docufilm “Tokyo-Ga”), Akira Kurosawa (Sergio Leone se ne innamorò) e Seijun Suzuki (ispiratore di Quentin Tarantino), la letteratura che salta da Yukio Mishima (e il suo folle conservatorismo) a Banana Yoshimoto e Murakami Haruki e la musica, con Kaoru Abe a imitare il rumore del traffico, i The Stalin ad alzare il pugno verso un cielo di piombo che copriva le lotte studentesche e un cambiamento mai davvero arrivato e Keiji Haino e il suo richiamare mondi altrove collocati. La musica in Giappone ha seguito una sua strada, quella strada fatta di codifica dei generi che arrivavano da Occidente, rendendoli propri, cambiandone le regole a proprio piacimento, sedimentando un mercato proprio che non sempre guarda al di fuori dei propri confini, ma quando lo fa è capace di rapire la nostra attenzione, anche più di quanto vorremmo ammettere.

Mettete dunque da parte Netflix e i suoi strampalati live-action, tenetevi stretti Mono e CHAI e preparatevi a una bella carrellata di disconi.

S.L.N.M. – sarunome

(Sube no Ana)

Mentre da queste parti si dibatte su quanto sia figo il nuovo Marracash (pff) sotto l’accecante vessillo del Sol Levante ci sono “three MC’s and one DJ” che prendono a calci parecchi altri colleghi nel resto del mondo. S.L.N.M. è un progetto allucinogeno e “sarunome” purtroppo è solo un EP. La forza del quartetto sta nella conoscenza di tendenze e generi presi per i capelli dagli ultimi tre decenni e spinti a forza di mazzate in un solo contenitore dai mille colori. Un trip bestiale quello cui ci sottopongono Shin Wada, Nayomi, Miya-z e Yukitero, al cui interno sbattono una contro l’altra mostruosità eurodance, tirate rappuse, mitragliatrici metal che diventano in un batter d’occhio castranti discese in inferni harsh/industrial e la techno, oh, se c’è, sale come un acido salito malissimo e si incastra tra un orecchio e l’altro facendo un macello. Prendere nota, che qui dormiamo. La sveglia è questa.

Toe – DOKU-EN-KAI

(Topshelf Records)

Ok, questo è un live, ma qui le regole le faccio io, quindi. I Toe sono considerati tra i monstre math rock giapponesi e infatti escono per Topshelf Records (che quest’anno si è distinta per aver tirato fuori i Really From e scusate se è poco) e comunque è tutto vero. Il quintetto, qui immortalato a Le Poisson Rouge di New York nel 2019 è in grado di evocare, con i brani della propria discografia, tutta una serie di emozioni, che finiscono per inchiodarsi all’amarezza. Chitarre taglienti e ben calibrate che sembra di risentire i Polvo, voce morbida e sognante e ritmiche serrate. Jazz, post-rock, math, indie, alternative si perdono e ritrovano, tra rumore oppressivo e melodie ascendenti creando atmosfere sognanti e calde. Il pubblico newyorkese in visibilio. Attendiamo dunque il nuovo album.

Pharmacist – Carnal Pollution

(Black Hole Productions)

Pharmacist e Terapeutist, ecco qui i nomi di battaglia di questo duo che sui Carcass ha passato più di un pomeriggio. E sui manuali di patologia forense e medicina, questo è poco ma sicuro. Sì, chiaro, se cercate l’avanguardia potete benissimo andare a cercare altrove, perché i Pharmacist sono un coacervo di brutale oscenità, tirate devastanti che mischiano grind ortodosso al death più tecnico (per delucidazioni citofonare a Erik Rutan) e ben cesellato con tanto di voce stile sturalavandini posseduto. Se lo sporco si annida nelle tematiche di “Carnal Pollution” lo stesso non si può dire delle capacità di questi due pazzerelli, che legnano durissimo e producono un EP di cattiveria sfavillante, tiratissimo, oscuro e morbosamente divertente.

Buffalo Daughter – We Are The Times

(Musicmine Inc.)

Sugar (all’anagrafe Motoko) Yoshinaga negli anni anni ha militato in parecchie formazioni nipponiche, suonato con Air, Cornelius, Pizzicato Five e anche formato un gruppo con l’ex-Mars Volta Juan Alderete, e nel corso del 2021 non solo ha partecipato al nuovo doppio singolo dei Boris Redemption Rose, ma ha anche avuto modo di dare alle stampe il nuovo album dei suoi Buffalo Daughter. “We Are The Times” è un concentrato di sferragliate elettroniche da far tremare le ginocchia. Prendete bassi funkettoni, synth feroci, chitarre strappate, voci cantilenanti in andamenti meccanici e spaventosi (ascoltate alcune melodie di Global Warming Kills Us All e ci sentirete riverberi dei Subsonica, cosa di cui credo che il trio non sia conscio, ma noi sì), aggressioni kraute e mischiate tutto assieme ad un senso del groove che ricorda tanto, ma proprio tanto, quello di certi Chic (e qui non dubito che Sugar abbia fatto sua la lezione di Nile Rodgers, come dimostra su Don’t Punk Out) che si spintonano con le metriche no wave di Lounge Lizards e DNA ed ecco che il piatto ricco in cui ficcarsi è bell’e che servito. Roba da starci malissimo. Roba che va importata qui, subito, adesso, lesti.

Haco – Nova Naturo

(Room40)

C’è un luogo, là fuori, in cui jazz, ambient ed elettronica si incontrano. In questo posto fantastico vivono poche persone, tra queste Haco. L’artista giapponese è in grado di evocare sensazioni al di là di questo piano d’esistenza, e lo fa come fosse la cosa più facile del mondo. “Nova Naturo” è arte a 360°, architettura del sound compresa e studiata nei minimi particolari, senza che risulti in alcun modo artificiosa. Accompagnata da musicisti di estrazioni culturali e artistiche più disparate (dalla Repubblica Ceca alla Francia fino alle vicine Kobe e Hiroshima). Tutti i brani sono ammantati da un’aura aliena, a volte semplicemente sospesa, altre volte più fisica, ma sempre e solo emozionante. Mi ha lasciato di stucco in particolar modo Lost And Found (Excursion 2) che torna a rendere la musica quello che da sempre dovrebbe essere, a maggior ragione in casi come questo, ovvero la descrizione di ciò che ci circonda attraverso la lente di chi la scrive e suona. Se poi aggiungete che la voce di Haco è splendida, avrete il quadro completo. La Room40 continua a sfornare dischi micidiali. Andava detto.

Kid Fresino – 20,Stop It.

(Dogear Records/AWDR/LR2)

Kid Fresino ha 28 anni ma a sentire “20,Stop It.” sembra scafato come e più di parecchi MC’s persino più anziani da questa parte del mondo. Mi sono appassionato all’hip hop giapponese svariati anni fa dopo aver letto un articolo a riguardo su Blow Up e da lì non mi sono più schiodato. Il genere, in estremo oriente, forse non avrà le basi culturali del suo progenitore statunitense (o di quello francese, tralasciando il nostro), ma non solo si difende benone, è in grado di generare veri e propri fenomeni. Il ragazzo è uno di questi. Si destreggia anglofono, e pure bene, ha un flow invidiabile e come non bastasse anche un gusto musicale ricercato. Verrete investiti da sterzate jazz memori degli insegnamenti di Guru (No Sun, come get me e Cats & Dogs sono davvero micidiali) che vanno a braccetto con roba gangsta e smargiassa, pure drill, ora violenta, ora amara e sostenuta dal gruppo che non lesina in classe. Una sola caduta di stile sulla stucchevole Rondo, ma appena dopo c’è No Sun remixata/risuonata dai Toe. Tutto torna.

NECRONOMIDOL – vämjelseriter

(Imperiet IV)

Lo so, lo so, questa roba non è DAVVERO buona, però a certe cose non resisto. a) il nome di questo gruppo di idol “alternative” e “ultra-dark” (come si spacciano loro) deriva dal Necronomicon, b) dicono di ispirarsi al black metal nordeuropeo e c) il loro logo è un logo black black. Gran motivazioni, direte. Insomma, la cultura giapponese e i chitarroni oltreoceano sono state razziate da Poppy e le Babymetal non fanno più alcun tipo di scalpore e non lo faranno neppure le NECRONOMIDOL ma io sbarello quando sento drum-machine gelide, chitarre giusto un po’ oscure e le “vocine”. Mah, se dicessi che ci sono influenze darkwave in “vämjelseriter” (che alla giapponese si pronuncia Vuamuieruseriteru ed è ispirato al racconto “La sorte che colpì Sarnath”…ah Lovecraft, se solo sapessi) esagererei? Forse sì, ma c’è pure del black (in R’LYEH) e dell’EBM imbastardita a un chilotone di pop, e io, lo ripeto, a ‘ste robe non resisto, nemmeno se paiono uscite da un anime brutto buono giusto per genz/pubblico medio di Netflix.

Gallkrist – Det Lukter Geit

(Bad Moon Rising/SHINSEINEN)

Messe da parte le “idol oscure” torniamo davvero nel regno delle tenebre. I più infognati di voi ricorderanno benone le Gallhammer, band che fece perdere la testa anche al veterano Nocturno Culto, e che da una decina d’anni non esistono praticamente più. Testa principale dell’idra era Eri Isaka, meglio conosciuta in questi oscuri circoli come Vivian Slaughter. Ecco, lei non si è affatto fermata e quest’anno sono diverse le uscite che la vedono protagonista. Una è questa cosina qua, uscita a nome Gallkrist. Vi piace Burzum? A noi sì e lo saprete bene dato che è stato la nostra “mascotte” per secoli, fino a che la rete non si è accorta che non è proprio l’ultimo dei boy scout. Eri sembra pescare a piene mani dalla produzione dungeon-driven del Conte e sfodera un EP (o meglio una cassetta) che sa di marcio lontano un miglio. Bordoni di chitarra mediosa, gelida e sfiancante, tastiere Casio e grida orrorifiche che dilaniano la colonna vertebrale. La descrizione “dungeon synth inspired blackend Casio noise doom” direi che calza a pennello.

VIVIANKRIST – Korrumpert Integritet

(Taxi Driver Records)

E questa è l’altra incarnazione di Isaka, che qui diventa VIVIANKRIST e che da Oslo (posto in cui risiede e che non credo sia una scelta casuale) sparge terrore sonoro. “Korrumpert Integritet” – pubblicato dall’italiana Taxi Driver e ben nota a queste latitudini del disagio – chiude lo spettro del sound che forma l’artista giapponese. Via le chitarre, ma non via lo sporco e il terrore, la paura e le attese lancinanti. I brani qui presentati sono quattro, ma l’ampio minutaggio fa sì che si superi di gran lunga la soglia dell’EP. Si entra così nel reame del male: distese infinite di drone raggelanti che si insinuano ove non vorreste mai, una penombra totalizzante e sintetica come un mare congelato di segnali che vanno a perdersi nell’infinito scandendo il passare inesorabile del tempo con rintocchi maligni che non vi faranno dormire.

Degurutieni – Dark Mondo

(Voodoo Records)

Ho scoperto Alco Degurutieni da Osaka troppo tardi per inserirlo nel BIJ dello scorso anno quindi, beh, con lui chiudo quello di questo. “Dark Mondo” pare un’allucinazione, anzi, per certi versi lo è, e con sé porta proprio tutte le caratteristiche allucinatorie del caso. A guardarlo viene in mente Tom Waits, e forse anche a sentire la sua voce (in Italia lo stesso fu per Capossela, dunque non vedo il problema) e buttandosi nel tunnel retrò delle sue composizioni ci si ritrova al buio, prigionieri di ritmi sornioni, di violenza e gretta garage music, archetipi elettronici lo-fi, danze psych (giusto così, dato che si porta appresso il bassista degli Acid Mother Temple) tribali urbane e malessere diffuso. Bello trashone come piace a me, zozzo il giusto e assolutamente godurioso. Il sottotitolo dell’opera dice “frightening music for scared people” e statene pur certi, è così.

つづく

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