Impatto Sonoro
Menu

Retrospettive

10 anni dopo la morte di Lou Reed: la moltiplicazione delle band e una guida per principianti

Photo: David Gahr

There’s a bit of magic in everything
and then some loss to even things out

da “Magic and Loss”

Quando ho letto da qualche parte che erano 10 anni dalla morte di Lou Reed ho cominciato a riflettere, mentre riascoltavo alcuni dei suoi dischi. Sia quelli che più amo, sia quelli che meno ascolto e che eppure non mi lasciano mai indifferente. Così facendo, ho cominciato a riflettere su cosa significhi in verità la morte di un artista, su cosa cambia veramente. Ho cominciato a riflettere su tutti quegli “oh, no!, se ne va un altro grande”, “ma che sta succedendo? E’ una epidemia!”, “che tristezza! Ha reso migliore la mia giovinezza/vita/(aggiungi qui quello che vuoi)”, “è come se lo avessi conosciuto personalmente e da oggi mi sentirò un pò più solo”. Insomma, tutte quelle frasi, più o meno fatte, che sprechiamo sui social ogni qualvolta muore uno dei nostri idoli.

Peraltro, per i meno giovani e se i tuoi idoli fanno parte come Lou della generazione del “classic rock”, l’esercizio di doglianza è ormai quasi settimanale. Parliamo difatti di artisti che se sono vivi hanno oggi tra i 70 e gli 85 anni, a spanne. E spesso e volentieri hanno pure vissuto vite abbastanza “spericolate”. Per cui, no, non è una epidemia. É come funziona la vita. E a meno che non stiamo parlando di Keith Richards, a un certo punto succede a tutti. 

Eppure, la domanda che questo decennale solleva in me è un altra e, per quanto vi potrà sembrare banale, non posso che pormela. “Ma uno come Lou Reed può davvero morire?”. Mi spiego meglio, avvertendo subito che rimarrò nei territori delle banalità (ma pazientate, vi prego): la grande arte non muore mai. È morto Leonardo? E’ morto Michelangelo? No. Venendo alla musica: è morto Beethoven? No e nemmeno John Coltrane o Jimi Hendrix. Sono lì con le loro opere che vengono ogni giorno godute da migliaia di persone. Sono vivi, vivissimi, molto di più di tante persone che oggi respirano e camminano, compreso chi scrive. Per come la penso io (sempre banale sono), l’arte è la migliore dimostrazione che la vita non è solo una esperienza materiale. L’arte è significativa quando riesce a connettere persone distanti per collocazione fisica, per esperienze. E tramite quella connessione immateriale dimostra l’esistenza di un qualcosa che ricollega l’universo e gli esseri senzienti.

E torno sulla terra. Secondo Spotify, Lou Reed ha quattro milioni mensili di ascoltatori. Se vi sommiamo quelli delle altre piattaforme streaming, più quelli che se lo ascoltano solo su supporto fisico, possiamo arrivare a stimare dieci milioni di persone che ogni mese ascoltano almeno una canzone del nostro. Non m’interessa comparare la cifra con quella di altri artisti, più o meno morti. Mi fermo a questi dieci milioni, dei quali faccio fieramente parte e che non mi sembrano pochi. 

Ricordate però la famosa frase di Brian Eno in relazione al primo disco dei Velvet Underground (quindi anche il primo di Lou)? “Quel disco ha venduto solo 30.000 copie, ma quei 30.000 hanno tutti fondato una band”. Tra questi 30.000 c’era appunto Brian Eno evidentemente, con i suoi Roxy Music. E chi altri? Immagino Iggy Pop e gli Stooges, David Bowie, Television, Sex Pistols, Can, Talking Heads, ecc…., per fermarci agli anni ’70. Insomma tutto il punk e post punk e il glam e persino il kraut. E a loro volta questi signori hanno influenzato tutto ciò che nei decenni successivi si potrebbe classificare come “art” e/o “alt rock”. Per cui, in questi 56 anni che ci separano da “Velvet Underground and Nico”, per quante volte si saranno moltiplicate quelle 30.000 band? Quante persone devono a Lou Reed (e ai VU) ore e ore di gioia e estasi artistica? Molto più che 10 milioni di persone al mese. 

Photo: Reuters / Jessica Rinaldi

Facciamola breve e torniamo al punto di partenza. Quando mai sarebbe morto Lou Reed? Il 27 ottobre 2013? No signore. Lou è vivo e lotta con noi.  E’ sopravvissuto alle scariche di elettroshock somministrate da medici trogloditi con il consenso dei genitori; a ogni genere di esplorazione sessuale; all’abuso di alcool, di eroina e di anfetamine e dio solo sa cos’altro. Si è trasformato in un cultore del Tai Chi, della meditazione e delle filosofie orientali, imparando a tirare fuori le sue emozioni, tutto ciò che aveva dentro e che aveva tormentato la prima metà della sua esistenza terrena. Ha superato la fine di tre relazioni più o meno coniugali, fino ad approdare all’amore definitivo con Laurie Anderson. E di tutte queste cose ha mirabilmente scritto e cantato. E ora sopravvive anche a quel cancro al fegato che alla fine lo ha ucciso dieci anni fa.

Io non sono qui per cantarvi le sue lodi, come diceva qualcuno. Sono qui per ricordarvi come sarebbe diverso questo mondo senza di lui. Cioè, in realtà non possiamo saperlo come sarebbe. Tutto ciò che Lou e i suoi Velvet Underground hanno stimolato sarebbe comunque in qualche modo sbocciato di suo. Ma meglio così. Molto meglio. E allora eccovi servita una piccola guida al genio discografico del nostro, limitandomi a 15 album, “diversamente capolavori”. Null’altro che un piccolo contributo all’esplorazione di un monumento del rock; un bignamino per principianti e per chi fosse ancora indietro con i compiti nel districarsi tra i 26 album dove Lou ha posato la sua impronta, sempre riconoscibile, per quanto sempre cangiante.

Capolavori immortali

“Velvet Underground and Nico” (1967)

Tutto ebbe inizio allora, quando Lou incontrò un musicista classico gallese innamorato dell’avanguardia (John Cale), un genio immortale (Andy Warhol, fondamentale sia per trovare un contratto discografico che per concepire una copertina iconica) e una “Femme fatale” (Nico). L’album uscì due mesi prima di “Sgt. Pepper’s” e non fu meno influente, anche se all’epoca se ne accorsero solo i famosi 30.000.

“Berlin” (1973)

Prodotto da Bob Ezrin, poi diventato ricco con i Pink Floyd di “The Wall”, “Berlin” è il concept album perfetto per il rock dannato, tossico e poetico di Lou. Altroché “The Wall” e i Pink Floyd che, al cospetto, sembrano una favola per bimbi e una band di scolaretti. Qui per approfondire.

“New York” (1989)

Non c’è niente al mondo come due chitarre, basso, batteria”. Se c’è un disco mai registrato nella storia del rock per cui questa frase di Lou è perfetta, quello è “New York”. Per non parlare della perfezione lirica che Lou raggiunge nel raccontare la sua città alla fine degli anni ’80, devastata dall’AIDS, dalla corruzione, dall’ipocrisia e dalle sofferenze socio-economiche.

Capolavori imperdibili

“Transformer” (1972)

Qualunque società che consenta a gente come Lou e me di scatenarsi è bella e che persa. Siamo entrambi molto incasinati, tipi paranoici – dei disastri ambulanti assoluti. Davvero non so cosa stiamo facendo. Se siamo l’avanguardia di qualcosa, non siamo necessariamente l’avanguardia di qualcosa di buono” (David Bowie, produttore del disco). Qui per approfondire.

“Songs For Drella” (1990)

In onore del loro mentore Andy Warhol, in occasione della sua scomparsa, Cale e Reed tornano insieme e ci regalano 15 canzoni minimali, eseguite con chitarra, tastiere e viola. 15 sketch pieni di amore, al modo di Lou, tra polemica e rimorsi: “Mi piaceva guardarti disegnare e guardarti dipingere / ma l’ultima volta che ti ho visto mi sono girato di spalle

“Magic and Loss” (1992)

In quegli anni a cavallo tra ’80 e ’90, ripulito e disintossicato, Lou era al top e lo torna a dimostrare in un’opera ispirata sia musicalmente che poeticamente nell’affrontare il tema che tormenta l’esperienza umana da sempre: la perdita, non la morte. E trova consolazione, “magia in ogni cosa”. Qui per approfondire.

Comunque capolavori

“White Light / White Heat” (1968)

Allontanati Warhol e Nico, cosa rimaneva ai Velvet? Un sacco di anfetamine e una gran voglia di mandare a fanculo tutto e tutti per scendere ancora più a fondo nelle paranoie di Lou. Il secondo disco dei VU lo comprarono ancora meno dei 30.000 che avevano comprato il primo; evidentemente quelli che non si impressionavano facilmente.

“Loaded” (1971)

Possono due sole canzoni rendere l’album che le contiene un capolavoro? Comunque sì, se stiamo parlando di Sweet Jane e Rock’n Roll. E non è che manchino altre tracce notevoli, in un’opera nata comunque un po’ sghemba, per una band così carica (“Loaded”) da scoppiare prima di finire il disco. Qui per approfondire.

“The Blue Mask” (1982)

Ho creato Lou Reed. Non ho nulla lontanamente in comune con quel tizio, ma posso impersonarlo bene”. Il  disco in cui inizia a sbocciare il nuovo Lou che imparerà a essere se stesso, fregandosene delle pressioni di critica e pubblico e togliendosi le maschere fino allora indossate. Qui per approfondire.

Quasi capolavori

“The Velvet Underground” (1969)

Fatto fuori anche John Cale, ai Velvet Underground restava solo Lou in cabina di comando, che qui ci propone un folk pop decadente, tra Beatles, Joan Baez e Baudelaire, nel tentativo di sfondare finalmente le classifiche. Fu un flop ancora peggiore che i precedenti, ma la bellezza che contiene è sopravvissuta all’incomprensione dei contemporanei. Qui per approfondire.

“Street Hassle” (1977)

Lou non fa sconti in un disco di rock’n roll urbano e irriverente, al massimo della sua sfrontatezza lirica. Si va da “Vorrei essere nero, avere un ritmo naturale / sparare sperma anche fino a sei metri” a “perché non ti acchiappi la tua donna per i piedi / e non la stendi fuori / sul marciapiede nella strada buia / e quando arriva mattina / non sarà che un altro caso di investimento anonimo”.

“The Bells” (1980)

Se non sai suonare rock e non sai suonare jazz, puoi metterli insieme e creare qualcosa di speciale”, disse Lou e lo fece con “The Bells”, creando la sua particolarissima versione di fusion. Un disco che “a nessuno è piaciuto quando è uscito e nessuno sembra aver cambiato idea al riguardo da allora. Lo adoro, però”, chiosava Reed e noi concordiamo.

Capolavori incompresi

“Metal Machine Music” (1975)

Un set di due dischi per un’ora con niente, assolutamente niente tranne che rumore, diviso a metà in due canali totalmente separati di urla e sibili disumani” (Lester Bangs) “Come dichiarazione è grande, come un gigante FUCK YOU mostra integrità: un’integrità malata, contorta, malevole, perversa, psicopatica, ma comunque integrità” (ancora LB) “Il più gran disco mai fatto nella storia del timpano umano” (sempre LB)

“Hudson River Wind Meditations” (2007)

Per l’ultimo disco che firma da solo, Lou sceglie l’ambient music. 67 minuti di meditazioni che non manca di posizionare sempre nella sua New York, sulle rive del suo fiume preferito. Visto tutto il fiorire odierno di app e musiche per meditare e riconnetterci con noi stessi e con il flusso dell’universo, ancora una volta il nostro era arrivato qualche lustro prima.

“Lulu” (2011)

Di dischi chiacchierati, Lou ne incise molti nella sua esemplare vita: “Lulu” fu oltre che l’ultimo della serie anche quello definitivo, oltre che uno dei più vituperati della storia sua e generale del rock. Il motivo dello scandalo? Per alcuni, aver usato come band d’accompagnamento i Metallica, per altri non averla usata a dovere” (Stefano I. Bianchi). Un consiglio: non date retta né agli uni, né agli altri. Lou Reed è oltre.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati