“Rain Dogs” è un disco che riesce a intrattenere e struggere come pochi altri, forte di una straordinaria capacità di calare l’ascoltatore nella situazione, senza mai azzardare un giudizio.
Questa musica trasporta una forte carica emotiva che si alterna in modo estremamente bipolare: l’essere incompresi, tristi e fragili, ma allo stesso tempo anche essere carichi di rabbia e di follia, così da riuscire ad inventarsi qualcosa per resistere al dolore.
“Paranoid and Sunburnt” rimane uno dei primi graffi sulla vetrina del benpensare, dell’ipocrisia e dell’odio “made in Europe”, un disco di amore e non di odio, di eguaglianza e non di sopraffazione.
Il “punk” è una questione di cuore, e a ricordarlo a tutti negli anni ’00 furono proprio i Converge di “You Fail Me”. Il punto più alto e la fine di un viaggio, che lo vogliate oppure no.
Pur non facendo tabula rasa di quanto prodotto dalla seconda metà degli anni novanta in poi, questo nono lavoro rappresentò per gli Slayer l’apertura di un nuovo capitolo. L’avvio di una fase forse leggermente più matura, segnata da una maggior attenzione sia alle strutture dei brani, sia ai contenuti dei testi. Controversi come al solito, certo, ma decisamente più profondi.
I Nickelback non meritano affatto l’odio che gli viene tributato dal giorno in cui hanno fatto la loro comparsa nell’heavy rotation di MTV. I Nickelback hanno talento, non producono pessima musica e non hanno distrutto né il grunge, né tanto meno il post-grunge, che nel 2001 se la passava comunque già abbastanza male. La colpa, o meglio dire il difetto del quartetto, corrisponde esattamente al loro principale pregio: la mediocrità.
“S.C.I.E.N.C.E.” spacca il culo quanto basta per rimetterlo su ogni qualvolta vogliate muovervi in maniera convulsa senza pensar troppo. Non è cosa da poco, per un disco così tanto derivativo.
Chiamateli Ismaele. Come il misterioso narratore di “Moby Dick”, i Mastodon di “Leviathan” abbandonano qualsiasi forma di protagonismo per mettere il loro talento al servizio di una storia. E la storia è proprio quella resa celebre dal romanzo di Herman Melville: la disperata lotta tra un uomo accecato dal desiderio di vendetta e l’enorme balena bianca colpevole di avergli portato via una gamba.
Nelle sedici tracce al suo interno l’impellenza creativa di una band pronta a presentarsi al grande pubblico si fonde con una natura incendiaria degna di chi non ha più nulla da perdere: biglietto da visita e canto del cigno allo stesso tempo
Relegati nella branca oceanica del nu-metal, nel loro cuore di sangue, caos e distruzione gli Slipknot hanno sempre avuto una tendenza a cose ben più estreme e “Iowa” ne è la prova più schietta.
Il Grunge non è morto, ma sta cambiando, e “No Code” è il momento di raccoglimento, di silenzio, in cui si ascolta il vento del mondo e si accumulano una grinta e una determinazione più profonda.
Cos’era questo “Songs For The Deaf”? Questo titolo ficcante e un po’ cinico faceva paura, era bello e perfetto per quello che, veloce come il caldo vento dei deserti, per usare un cliché atto alla bisogna, ascoltai uscire dalla mia triste radiolona Sony con lettore CD.
“Down” è un’esperienza unica, simile a quella che si potrebbe provare a bordo di montagne russe impazzite.
Un suono fresco, limpido, dinamico e definito che caratterizza ogni singolo minuto del lavoro. Privo di naturalezza? Forse. Ma poco importa: siamo pur sempre in zona industrial. Anzi, è proprio questa leggera patina artificiale a rendere il tutto piacevolmente “novantiano”.
Quella di Jeff Buckley era una voce intima e personale, la trasposizione in musica d’un mondo interiore che anzi, cercava in tutti i modi di estraniarsi da quello tangibile.
Il mondo è cambiato dall’uscita di “…And Out Comes The Wolves”, ma non i suoi meccanismi di classificazione, esclusione o odio verso i diversi. Che il Punk in definitiva non sia morto, ma abbia soltanto cambiato livello di espressione della sua opposizione al sistema?
Oscuri, angoscianti e opprimenti: i cinquantotto minuti di “In Their Darkened Shrines” sono più pesanti del fondoschiena di un ippopotamo della valle del Nilo. Ma è la loro terrificante maestosità ad averli resi immortali.
Per chi ama questa band, ogni nota di questo disco ha assunto un significato importante, ed è proprio quel significato che motiva e rinforza quella vena di sana nostalgia che lo rende ancora oggi importante e interessante.
Un bel macello di avantgarde-metal, noise sperimentale e schegge di grind-core ed hc destrutturato che si alternano in maniera chirurgica e con una precisione al limite del manicomio. Una sfida folle e ambiziosa, a conti fatti stravinta.
Non c’è un angolo buio in ‘sto disco, non uno, non un momento di rifiato, solo un treno che ha perso totalmente il controllo e che sarà pronto a travolgere e portarsi dietro tutti quanti. O lasciarli indietro, fregandosene alla grande.